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HR E NUOVE GENERAZIONI

Intervista a Beatrice Carlorosi

Foto profilo di Beatrice Carlorosi

Group HR Director di A.I.Gen, nata dall'unione di aziende tech per sviluppare soluzioni avanzate che integrano l'IA e l'analisi dei dati. Già Talent, Learning & Development Director per il Sud Europa e New York di NH Hotel Group, ha contribuito al suo sviluppo strategico dopo un’esperienza di consulenza direzionale.

In che modo i valori dei giovani di oggi differiscono rispetto a quelli delle generazioni precedenti?

Credo che i valori dei giovani di oggi siano cambiati sotto più aspetti rispetto alle generazioni precedenti, ma ci sono anche elementi di continuità.

Oggi vediamo un’attenzione maggiore verso temi come la sostenibilità ambientale, la salute mentale e l’inclusione sociale.

Rispetto alle generazioni precedenti, che spesso mettevano al primo posto la stabilità economica e il sacrificio, la Generazione Z è più orientata alla realizzazione personale e al trovare un equilibrio tra vita e lavoro.

Non sono disposti a mettere il lavoro al centro della loro vita a tutti i costi. Certo, vogliono fare qualcosa che li appassioni e che permetta di essere indipendenti, ma non accettano più l’idea che il successo sia solo sinonimo di sacrificio.

Per i giovani di oggi è fondamentale trovare un equilibrio tra vita e lavoro, dare priorità al benessere mentale e avere la libertà di scegliere il percorso che meglio si adatta ai loro valori.

Un altro grande cambiamento è stato prodotto dal rapporto costante con la tecnologia: sono cresciuti in un mondo iperconnesso, dove i social media influenzano i loro valori e il modo in cui vedono sé stessi e gli altri. Questo li rende più consapevoli di questioni globali, ma a volte li espone anche a nuove pressioni, come la ricerca costante di validazione di quello che sono e che fanno.

In definitiva, quello che è cambiato non è solo il modo di lavorare, ma l’intero sistema di valori: vogliono una vita più equilibrata, autentica e in linea con ciò che sono, e soprattutto non sono disposti a rinunciare a questo per un’idea di successo che appartiene al passato.

Detto questo, alcuni valori restano immutati. L’amicizia, la famiglia, il desiderio di giustizia e di libertà sono sempre stati importanti, solo che oggi li esprimiamo in modi diversi. In fondo, ogni generazione si adatta al proprio tempo, cercando di dare il meglio di sé con gli strumenti che ha a disposizione.

Le nuove generazioni lasciano le organizzazioni che non vanno incontro alle loro nuove esigenze.

Al di là della letteratura, quali sono nella Sua esperienza le loro ASPETTATIVE prioritarie e quelle più complesse da gestire?

Dal mio punto di vista le nuove generazioni sanno perfettamente cosa vogliono da un lavoro e soprattutto cosa non sono più disposte ad accettare.

A differenza del passato, dove si restava in un’azienda anche a costo di sacrificare benessere e soddisfazione personale, oggi la priorità è trovare un ambiente che rispetti valori, aspirazioni e necessità individuali.

Se penso alle aspettative più importanti che vedo emergere, la prima è senza dubbio la flessibilità.

Non si tratta solo di smart working, ma di poter organizzare il proprio tempo in modo più libero. I giovani, come già sottolineato, vogliono fare bene il loro lavoro, ma senza rinunciare al tempo per sé, per le proprie passioni o per la propria salute mentale.

Un altro aspetto centrale è il benessere sul posto di lavoro.

Non è più accettabile sopportare ambienti tossici, ritmi insostenibili o capi autoritari. Oggi, i giovani si aspettano di essere ascoltati, di poter esprimere le proprie idee e di lavorare in un contesto che favorisca la collaborazione anziché la competizione esasperata. Quando queste condizioni mancano, non esitano a cercare alternative professionali.

Poi c’è il tema della crescita professionale.

Anche se il lavoro piace, la Generazione Z ha bisogno di vedere prospettive: le nuove generazioni hanno fame di apprendimento e si aspettano opportunità reali per sviluppare nuove competenze e avanzare di carriera. Servono percorsi chiari e possibilità concrete di mettersi alla prova.

Un altro elemento importante per tenere ingaggiate le nuove generazioni è il desiderio di una leadership più orizzontale, che si può scontrare con profili manageriali e strutture aziendali ancora molto gerarchiche e legate ai valori di altre generazioni. Anche la voglia di cambiamento e innovazione dei giovani può essere frenata da processi interni lenti e burocratici.

Un altro aspetto complesso è il bisogno di crescita immediata. Molti giovani vogliono risultati rapidi e avanzamenti di carriera in tempi brevi, ma la realtà è che certe competenze richiedono tempo per essere sviluppate. A volte noto una certa impazienza, e questo può portare a lasciare un’azienda prima ancora di averne esplorato a pieno le possibilità.

La nuova generazione è cresciuta con Google, con Alexa, con il mondo a portata di click, in contrasto con processi di apprendimento che possono essere lunghi e richiedere tempo e pazienza.

In definitiva, credo che le nuove generazioni abbiano portato un cambiamento positivo nel mondo del lavoro: chiedono più rispetto, più equilibrio e più opportunità di crescita. Ma per far sì che queste aspettative si trasformino in realtà, serve anche un dialogo aperto tra aziende e collaboratori, per trovare un punto di incontro tra innovazione, organizzazione e business.

È proprio questa la cultura che abbiamo voluto in AIGen, dove l’età media è di 35 anni.

Un ambiente aperto, flessibile, orientato all’ascolto di tutti e alla condivisione. Dove ognuno può essere accompagnato nel raggiungere i propri obiettivi di crescita attraverso formazione continua e challenge professionali.

Quali strategie per aumentare l’engagement dei giovani talenti e trattenerli, riducendo il rischio di disinteresse e il turn-over (in un settore competitivo come il Suo attuale)?

Il settore dei dati e dell’AI è davvero molto competitivo e non è più solo l’aspetto economico a fare la differenza per i Giovani Talenti.

Provo a rispondere a questa domanda con la metafora del romanzo: la trama deve essere coinvolgente, i personaggi devono sentirsi parte della storia e il finale deve promettere qualcosa di straordinario.

In un romanzo il primo elemento è il senso della storia, il purpose e l’impatto quindi.

I giovani professionisti vogliono vedere l’impatto del loro lavoro sui risultati, vogliono sentirsi parte di un progetto più grande che valorizza il loro contributo.

C’è poi lo sviluppo e l’apprendimento continuo: se il protagonista non evolve, il libro diventa noioso. Stesso discorso vale per il talento: mentorship di qualità, percorsi di crescita chiari e sfide stimolanti sono essenziali. I giovani talenti non hanno bisogno di promesse, ma di indicazioni chiare e di un impegno concreto da parte dell’azienda.

Autonomia e ownership: se i giovani si sentono comparse invece che protagonisti, si disinteressano. Bisogna dare loro ownership su progetti reali, fiducia e spazi per sperimentare.

Altro elemento importante è il senso di appartenenza ad una “realtà”, ad una “comunità”. È il senso di connessione e identità che un giovane talento deve sentire all’interno dell’azienda.

I giovani talenti restano nei posti in cui si sentono parte di qualcosa di speciale, non solo perché il lavoro è interessante o ben pagato.

Un’azienda che vuole trattenere talenti deve diventare un gioco infinito: un posto in cui i giovani non vogliono solo “arrivare”, ma rimanere, perché farne parte ha un valore che va oltre lo stipendio.

Ogni strategia deve includere la flessibilità e il work-life balance: Il lavoro deve integrarsi con la vita, non dominarla. Il rischio di burnout è un deterrente enorme per i migliori talenti.

Ovviamente anche una corretta politica di riconoscimento è alla base di ogni strategia di retention: il denaro non è tutto, ma conta. Se il mercato offre di più, se il talento si sente sottovalutato, se le gratificazioni sono solo simboliche, il rischio di fuga è altissimo.

La strategia per attrarre e trattenere giovani talenti nel nostro settore (ma non solo) non è una questione di “policy o procedure aziendali”, ma di narrazione, crescita e appartenenza.

Se il loro viaggio professionale è avvincente, saranno i primi a voler continuare a scrivere la storia con noi.

Ed è questo il romanzo che ognuno di noi contribuisce a scrivere in A.I.Gen., ritagliandosi un ruolo e vivendone in prima persona la storia e i successi.

Come Lei indicava, tra gli aspetti intangibili fondamentali sul luogo di lavoro per le giovani generazioni abbiamo da un lato, la flessibilità lavorativa necessaria ad avere un giusto work-life balance e dall’altro, le opportunità di progresso professionale e di una carriera significativa.
Con quali leve l’HR può contribuire a ottimizzare l’equilibrio tra questi due aspetti bilanciandoli con le necessità aziendali o addirittura renderli sinergici?

Credo che il primo passo sia proprio cambiare prospettiva: flessibilità e crescita non sono due esigenze opposte, anzi, possono rafforzarsi a vicenda.

Se una persona ha la possibilità di gestire il proprio tempo in modo intelligente, di lavorare secondo i propri ritmi e di conciliare la vita personale con quella professionale, sarà anche più motivato e più produttivo.

Allo stesso tempo, se vede opportunità concrete di sviluppo, sarà più propenso a restare in azienda e a dare il massimo.

Ecco perché l’HR deve lavorare su più fronti.

Per quanto riguarda la flessibilità, è fondamentale andare oltre il semplice concetto di “smart working” e ragionare in termini di autonomia vera. Non si tratta solo di permettere di lavorare da remoto, ma di dare alle persone la libertà di organizzarsi, pur mantenendo momenti di allineamento e collaborazione. Alla fine, ciò che conta non è tanto la presenza fisica, ma il valore che una persona porta con il suo lavoro.

Il raggiungimento degli obiettivi e la qualità del lavoro svolto devono essere i driver, occorre spostare il focus dal tempo speso alla qualità del lavoro svolto. Per questo ci vogliono due ingredienti fondamentali: la fiducia reciproca e la responsabilità sui risultati attesi.

Dall’altra parte, la crescita professionale non può essere vista più come un percorso rigido e predefinito.

I giovani vogliono sentirsi parte di un progetto, ma vogliono anche la possibilità di costruire la propria carriera in modo dinamico, magari esplorando ruoli diversi e acquisendo competenze trasversali.

Qui l’HR può fare la differenza, ad esempio introducendo percorsi di sviluppo personalizzati, dando spazio alla formazione continua e permettendo alle persone di adattare parte del loro ruolo in base ai loro interessi.

La chiave, secondo me, è proprio far dialogare questi due aspetti. Se un’azienda riesce a creare un ambiente in cui le persone possano crescere senza dover sacrificare il proprio equilibrio personale, ha un vantaggio enorme in termini di attrazione e retention dei talenti.

È un cambio di mentalità, che richiede anche una leadership più aperta ed empatica.

Ma il risultato è un modello di lavoro più sano e sostenibile, che funziona sia per lE personE che per l’azienda.

È la sfida che abbiamo accolto in AIGen: dare la massima flessibilità, rispettare i progetti e le necessità individuali, mettendo al primo posto la persona, e contemporaneamente supportare la crescita professionale in modo personalizzato, non standardizzato.

La carriera non è più una scala da salire in modo rigido, ma una rete di opportunità.

I giovani vogliono sentirsi protagonisti del proprio percorso, con la possibilità di sviluppare competenze in modo dinamico e non solo aspettando promozioni “a tempo”.

Per questo garantiamo l’apprendimento continuo e offriamo percorsi di carriera flessibili, che diano spazio a esperienze laterali (es. passare da un ruolo tecnico a un ruolo più strategico, o viceversa).

Contemporaneamente garantiamo sinergia tra work-life balance e crescita attraverso modelli di carriera “a ritmo variabile” che consentano momenti di accelerazione e momenti di pausa senza penalizzazioni; una cultura del feedback continuo, per adattare il percorso di ogni persona alle sue esigenze in evoluzione e soprattutto una Leadership empatica, che non consideri la flessibilità come un ostacolo, ma come un elemento chiave per trattenere i migliori talenti.

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