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L’(EMPLOYEE) ENGAGEMENT SOSTENIBILE

Intervista a Paola Boromei

Foto profilo Paola Boromei

Chief Human Resources & Organization Officer del Gruppo 24 ORE. Già Chief People & Organization Officer di Snam, Direttore Risorse Umane e Organizzazione di Humanitas, Direttore Risorse Umane Area Mediterraneo di EY, deputy HR Director Europe di L’Oréal Luxe International.

Come molte ricerche hanno mostrato, focalizzarsi unicamente sull’aumento delle performance può compromettere la stessa economicità dell’organizzazione aziendale. Lei come definirebbe l’engagement sostenibile/di lungo termine?

Costruire engagement all’interno di un’impresa è un obiettivo strategico che si consegue normalmente nel lungo periodo, grazie ad una combinazione di elementi che rinsaldano il LEGAME AFFETTIVO con l’azienda e migliorano la percezione di SENTIRSI BENE delle persone.

Mi riferisco soprattutto a strategie e pratiche che mirano a promuove un ambiente di lavoro più motivante e gratificante coinvolgendo le persone e altri stakeholder in INIZIATIVE DI SOSTENIBILITÀ SOCIALE. Nella pratica, si tratta di coinvolgere le persone nel give-back, nel volontariato d’impresa, in pratiche ecologiche e socialmente responsabili, nella formazione, nella cura della propria salute e benessere, nel welfare integrativo, nell’adesione a un sistema etico di valori…

Si lavora sulla FIDUCIA, su sistemi di relazioni basati sui VALORI delle persone e sul RICONOSCIMENTO RECIPROCO nella pratica organizzativa (es. gruppi di lavoro misti, coaching interfunzionale…)

Un obiettivo sfidante è altresì quello di armonizzare la qualità delle assunzioni in logica strategica, pianificando l’evoluzione futura del MIX DI COMPETENZE necessarie alla sostenibilità del business.

L’engagement sostenibile è quindi un approccio integrato, che tende a migliorare la qualità di vita dei dipendenti, contribuendo a sviluppare un impatto positivo sulla società e sulle comunità.

La retention, il clima organizzativo interno, la capacità di attrazione, la gestione del turnover sono tutti leve e indicatori utili a misurarne il ritorno.

Quali sono i principali fattori di contesto della necessità di costruire un engagement sostenibile?

La pandemia da Covid 19 ha profondamente mutato la motivazione e le aspettative delle persone, anche verso il lavoro, complici le nuove abitudini.

In pochi anni, abbiamo vissuto diversi eventi straordinari che hanno stravolto i paradigmi del lavoro e generato impatti rilevanti sull’economia: oltre a una pandemia che ha coinvolto almeno tre Continenti, due nuove guerre, focolai attivi in almeno 5 epicentri, un forte rialzo dell’inflazione e dei tassi, un incremento dei costi dell’energia e di varie materie prime.

La legacy è stata esponenziale, e si è espressa in primis in un sentimento di incertezza generalizzato, un’accresciuta attenzione ai temi della salute e una diffusa insofferenza a dovere rinunciare ai propri valori fondamentali, che si manifesta nella necessità di conciliare al meglio le esigenze professionali e personali.

Rispondere è stato possibile anche grazie alle più diffuse pratiche di lavoro agile, una maggiore attenzione al benessere in azienda, politiche di welfare e di sostenibilità, e la ricerca di un purpose aziendale.

Ma al contempo si sono anche rilevati fenomeni di GREAT RESIGNATION con picchi elevati sulle tenure basse (primi 12 o 24 mesi), GREAT REGRET per quanto si è perso cambiando contesto lavorativo, e ancora QUIET QUITTING, nella percezione – oggi generale – di lavorare di più che in passato (anche se non vi sono evidenze tra le ricerche internazionali in questo campo).

Per le aziende, l’insieme di questi fenomeni ha significato dovere affrontare molte transizioni allo stesso tempo: i nuovi target ESG, le nuove modalità di lavoro, il riequilibrio finanziario, le nuove regole della Governance delle società quotate, framework regolatori in evoluzione, con un costo economico e sociale.

Ma le crisi, le grandi fasi di cesura con il passato, portano con sé anche delle grandi opportunità.

Nella Sua visone, quali aspetti gestionali e organizzativi emergono per motivare le persone all’interno di un team, in un’ottica di lungo termine?

Oggi dobbiamo fare i conti con una visione che si è progressivamente ridotta al breve termine. Ma sia per conquistare la fiducia dei mercati attraverso un’equity story di ampio respiro che per dare un senso all’esperienza delle persone è necessario dare impulso ad una visione di lungo periodo.

Si tratta di creare ambizione, ispirazione, fiducia.

Vanno ridefinite le regole d’ingaggio, con progetti di ampio respiro e una maggiore partecipazione delle persone negli ambiti decisionali, soprattutto per i più giovani: UNA PIÙ AMPIA MISSIONE CONDIVISA, con impatti per la comunità interna ed esterna.

Come la leadership aziendale deve giocare il suo ruolo nel perseguire un engagement sostenibile delle persone ?

La leadership deve incarnare i NUOVI VALORI in cui le persone si riconoscono: l’empatia, la capacità di operare una trasformazione che generi valore in ottica di sostenibilità dell’impresa nel medio e lungo periodo, l’attenzione allo sviluppo delle Risorse umane…

Quali sono le leve a disposizione?

Negli ultimi trent’anni, si sono spinte le persone a sviluppare la propria employability.

Inizialmente, negli anni duemila, questo nasceva dall’esigenza di competere sui migliori talenti con la prerogativa di accelerare lo sviluppo delle persone, creando un nuovo volano sul mercato del lavoro che rendeva esponenziale il valore dell’asset “persone” nel sistema Paese. Una sorta di bacino circolare dei talenti in un mercato in fibrillazione, con tassi di turnover che tra i grandi player globali di alcune industry raggiungeva il 30% in un anno.

Nel decennio successivo, in un contesto più volatile a causa della crisi finanziaria globale, una delle peggiori crisi economiche dalla Grande Depressione del 1929, le imprese puntavano su meccanismi di performance appraisal, per esprimere attraverso la distribuzione sulla gaussiana le persone su cui puntare, in un sistema dove bisognava fare delle scelte ed esodare volumi di persone a basso ritorno di investimento.

Tutto ciò ha prodotto una “mercatizzazione” delle persone e delle competenze.

Il concetto di employability si può riassumere così: “tu, lavoratore, sei formato per essere al massimo delle tue competenze, ma se l’azienda non ti garantisce una carriera te ne vai e lo fai perché sul mercato sai di avere un’opportunità”.

Una domanda da porsi oggi è se stiamo costruendo un’IDENTITÀ COLLETTIVA o se le persone sono in azienda per perseguire la propria personale employability.

Le grandi transizioni del lavoro richiedono il coraggio di operare delle cesure con il “si è sempre fatto così”, e di avere in mente sin dall’inizio quale sarà la meta finale.

La funzione HR è partner strategico delle numerose transizioni che stiamo affrontando: modello industriale, competenze professionali, organizzazione, multi-generazioni.

Il contesto è in continuo divenire e saper comunicare con le persone accorcia le distanze e rafforza la fiducia. Le persone hanno bisogno di prevedibilità e di sicurezze, per mitigare l’incertezza esterna. Anche quando l’obiettivo della Corporate è di razionalizzare, attraverso piani di efficientamento per fare “ordine nella stanza”, questo va comunicato con chiarezza alle persone.

Ma se si punta al cuore, bisogna mettere in campo investimenti e risorse, accettando un certo slack, una certa ridondanza. Se si punta al cuore, in particolare con i giovani, bisogna investire, in un’ottica di sviluppo delle competenze, in progetti, in tecnologie, in knowledge transfer, e garantire osmosi con i capi.

Le tecnologie sono un grande abilitatore, ma vanno accompagnate.

E il cambiamento inizia quando le cose vanno bene.

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