Il mondo del lavoro è in costante evoluzione, ma una verità resta immutata: un dipendente formato è una risorsa inestimabile. Eppure, nonostante l’up-skilling e il re-skilling siano sulla bocca di tutti, c’è una crescente disconnessione tra ciò che i manager promuovono e ciò che i dipendenti percepiscono.
Il punto di vista dei manager: un investimento imprescindibile
Per i leader aziendali, sviluppare le competenze delle persone sembra essere una questione strategica per diversi motivi:
Adattarsi per sopravvivere.
Secondo Europe’s Digital Decade: Digital Targets 2030, oltre il90% delle aziende dovrà raggiungere livelli minimi di intensità digitale entro pochi anni, investendo obbligatoriamente in risorse o programmi associati alle competenze che l’Europa ha identificato come MUST. Tuttavia le aziende già oggi lamentano l’impossibilità di trovare personale con competenze adatte per implementare progetti a sostegno della propria competitività (skill mismatch), figurarsi essere compliance alle normative Europee.
Il problema assume dimensioni così gravi che, secondo l’indagine realizzata da Local Area Network (LAN) nel 2023 in caso di mancato reperimento di lavoratori con competenze adatte a svolgere tali progetti, il 16% delle aziende rinuncia al progetto, l’ 11% ricerca aziende a cui appaltare tali progetti, mentre il 38,9% cerca di riqualificare il personale interno in tempi record.
Costi sotto controllo.
Ricorrere a mercati del lavoro interni per formare il personale e spostarlo verso ruoli chiave si è rivelato una strategia efficace in numerosi casi ben documentati.
Un caso paradigmatico lo troviamo nelle iniziative di pochi anni fa implementate da IBM, che ha offerto ad alcuni dipendenti, in procinto di essere coinvolti in una pesante ristrutturazione, l’opzione di prendere la buonuscita o di passare a ruoli che richiedevano nuove competenze, per i quali avrebbero ricevuto formazione per un giorno alla settimana nel loro tempo libero. Questo rappresentava un modo per condividere i costi della loro riqualificazione. Tutto questo ha portato alcuni vantaggi per IBM, tra cui una maggiore produttività, un migliore adattamento dei dipendenti e un minor turnover, e ha fatto risparmiare il doppio dei costi di riqualificazione.
Per approfondimenti puoi leggere l’articolo di Harvard Business Review.
Formazione sulle soft skill.
Investire nelle soft skills di un dipendente sembra pagare sempre e comunque.
Uno studio del MIT Sloan e altre università, condotto presso cinque stabilimenti del produttore di abbigliamento indiano Shahi Exports Private Limited, ha rivelato l’importanza delle soft skills nel luogo di lavoro. Il programma di formazione di 12 mesi sulle soft skill, che includeva comunicazione, problem solving, gestione del tempo e dello stress, e altro, ha generato un ritorno sull’investimento del 250% entro otto mesi dalla sua conclusione. Le soft skill si sono rivelate rilevanti anche nei lavori ripetitivi, come nelle linee di assemblaggio tessile, grazie a miglioramenti in produttività, efficienza e fidelizzazione dei lavoratori.
Conclusione a cui sembra essere arrivato lo Stanford Research Institute International, che conferma l’importanza delle soft skills per il successo lavorativo a lungo termine (75%), rispetto alle hard skills (25%). Un po’ come il principio di Pareto, ma attenzione a non sottovalutare le competenze tecniche, quel 20% che può fare la differenza!
Ma i dipendenti cosa ne pensano, davvero?
La prospettiva è tutt’altro che rosea:
Formazione si, ma quando e come?
Si sente spesso dire “Il tempo dedicato alla formazione equivale a tempo in cui non si lavora”. In media, le aziende dedicano alla formazione dei loro dipendenti fino a 102,6 ore,l’equivalente di più di 12 giorni lavorativi, un carico che si dichiara percepito come eccessivorispetto alle altre priorità lavorative, agli obiettivi da raggiungere ed alle richieste standard di produttività che devono essere rispettati nel quotidiano, secondo i lavoratori. Dati di The Industry Report.
Scarsa rilevanza o poca corrispondenza con gli interessi dei lavoratori.
Secondo un rapporto di NTUC LearningHub (NTUC LHUB) intitolato Workforce Learning in Workplace Transformation, due dipendenti su cinque hanno espresso insoddisfazione verso i programmi formativi aziendali, descrivendoli come “mediocri”, “scadenti” o “molto scadenti”. I principali motivi di questa insoddisfazione includono: Gamma limitata di argomenti trattati(40%), Noia e approccio formativo convenzionale (37%) e Scarsa rilevanza degli argomenti per lo sviluppo della carriera (18%). Non stupisce dunque il sorprendente dato di Education at a Glance, che l’OCSE ha condiviso nel suo ultimo report: i lavoratori investono circa 9 giorni all’anno del loro tempo di lavoro nella ricerca di corsi o contenuti di apprendimento pertinenti ai loro interessi e adatti a risolvere i problemi concreti quotidiani. Questi corsi vengono offerti al di fuori dell’ambito aziendale, e il dato è in aumento dal 2020, ma non è monitorato dalle aziende.
Paura dell'automazione.
I dipendenti temono la loro sostituibilità parziale e totale, nonostante l’acquisizione di nuove competenze, fenomeno che già prima del COVID nel 2018, secondo il report di CEDEFOP, coinvolgeva il 30% della forza lavoro Europea.
Scarsa mobilità interna, alto disingaggio e senso di solitudine.
Se fino al 2020 il trend di soddisfazione dei dipendenti era stato in continua crescita, secondo la ricerca State of Global Workforce di Gallup, registrando le percentuali più alte di sempre, a partire dalla pandemia si è verificata un’inversione di tendenza, con l’engagement che è crollato a picco e poi si è mantenuto stabile su percentuali inferiori, senza più tornare a crescere.
A preoccupare non è solo l’impegno dei dipendenti, ma anche una generazione di lavoratori che si trova a fare i conti con altissimi livelli di tristezza, stress e insoddisfazione. Nello specifico, il report evidenzia come una persona su cinque si trovi a fare i conti ogni giorno con un costante senso di solitudine. Numeri ancora peggiori per i dipendenti under 35 che lavorano da remoto: in questo caso la percentuale sale al 25%.
Il numero di persone che esprimono stress, tristezza, ansia, rabbia o preoccupazione è aumentato negli ultimi 10 anni, raggiungendo i livelli più alti dall’inizio delle indagini di Gallup nel 1935.
L’Europa registra i numeri di engagement più bassi di tutto il mondo (13% di lavoratori, contro il 23% mondiale). L’Italia conferma il trend europeo e si colloca tra le nazioni con i dipendenti meno impegnati e più tristi sul luogo di lavoro, facendo meglio soltanto della Francia, con una percentuale dell’8% di dipendenti attivamente impegnati (i francesi arrivano appena al 7%).
Conclusione
Sembra dunque necessario ripensare profondamente il modo di affrontare il problema dello sviluppo delle competenze degli individui e del loro benessere sostanziale; non è solo un problema di tecnologie disponibili, di costi e di produttività, ma del significato stesso del ruolo del gestore delle “Risorse Umane”.
Per sviluppare un programma efficace di upskilling e reskilling, è necessario seguire un approccio strutturato e mirato.
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